#SpazioTalk, Davide Martinelli: “Smetto di correre senza rimpianti. Il ricordo più bello? Con Boonen”
Dopo otto anni da professionista, Davide Martinelli sceglie di cambiare strada. Il classe ’93 ha annunciato con un dettagliato post sui suoi social la decisione di smettere con il ciclismo professionistico, anticipando che si dedicherà a un altro progetto, sempre nello stesso mondo. Con due vittorie tra i pro’ (una tappa al Giro di Polonia e una al Tour de la Provence, entrambe nel 2016), partecipazioni a tutte le Monumento e al Giro d’Italia 2017 come scudiero di Fernando Gaviria (che quell’anno vinse 4 tappe), il bresciano chiude un capitolo della sua vita professionale per aprirne uno nuovo. La redazione di SpazioCiclismo lo ha contattato per un’intervista, di cui potete ascoltare un estratto nell’ultima puntata di SpazioTalk.
Hai annunciato il ritiro dal ciclismo professionistico. Da cosa nasce questa decisione?
Nasce da abbastanza lontano. Durante questa stagione sentivo che passavano i mesi e io non mi sentivo mai in una condizione super. Davo tanto e avevo indietro poco. Mi allenavo tanto, facevo i sacrifici necessari ma non riuscivo a rendere mai. Ho cominciato a prendere in considerazione la possibilità di interrompere la carriera: poi, mese dopo mese, si sono verificate altre circostanze che mi hanno fatto pensare di prendere questa decisione sul futuro. È un po’ un insieme di cose.
Sai già cosa farai in questa nuova fase di vita?
Sì, lo so già, ma per scaramanzia preferisco non sbilanciarmi finché le cose non sono definite bene. Però posso dire che rimarrò nel ciclismo pedalato e a contatto con il mondo in cui ho vissuto da quando ero bambino.
Il post con cui hai annunciato il ritiro ha generato diversi commenti. Ti aspettavi tutto questo affetto? Come ti ha fatto sentire questo abbraccio da parte del mondo del ciclismo?
Un po’ me lo aspettavo perché penso di essermi sempre comportato bene e di non aver fatto torti a nessuno nella mia carriera. Certo, è chiaro che tanti messaggi positivi mi hanno fatto molto piacere perché sono arrivati da persone che non mi aspettavo. Anche messaggi semplici, che mi hanno reso contento. Concludere “prematuramente” ha sorpreso molte persone ma tanti mi sono stati vicino. Le ringrazierò anche personalmente. Vuol dire che ho lasciato qualcosa di buono.
Ripercorrendo la tua carriera, hai avuto tante soddisfazioni: la partecipazione a tutte le monumento, a un Giro d’Italia, qualche vittoria (tra cui una nel World Tour al Giro di Polonia). Qual è stato il più bello per te?
Una cosa straordinaria, che pochi considerano, è tutto il percorso, al di là delle vittorie professionistiche. Sono contento del percorso nelle categorie minori, l’approccio al professionismo è stato stratosferico. Uno dei più bei ricordi è di una delle mie prime gare, quando ho corso con Boonen e mi ha portato una borraccia. Si era fermato per fare pipì ed è rientrato con le borracce per tutti, sapeva un po’ d’italiano e mi ha detto “Davide, vuoi da bere?”. È stato magico, era il mio idolo in televisione e mi sono trovato lì con lui che mi dava una mano. Ma se vogliamo parlare di un momento chiave, sicuramente direi il successo al Giro di Polonia. Era il mio primo anno, era una vittoria World Tour. Poi è stato bello, sono arrivato da solo perché ero scattato all’ultimo chilometro. Subito, quando sono arrivato, ho capito che sarebbe stato un momento importante.
E poi c’è stato quel Giro d’Italia.
Sì, voglio aggiungere tra le grandi soddisfazioni quel Giro d’Italia corso con la Quick-Step con le quattro vittorie di tappa di Gaviria. Io facevo il penultimo uomo davanti a Richeze, una piccola parte di quei successi la sento anche mia. Lui vinceva ed era un’altra storia ma anche lì voglio darmi un piccolo premio. È stato difficile essere lì a lottare ogni volta. Poi ero molto giovane, il Giro d’Italia è il sogno di tutti i bambini. Sono soddisfazioni sapere di esserne stato parte. Mi rende orgoglioso.
Tra l’altro Gaviria ha avuto una carriera ricca di soddisfazioni ma probabilmente quel Giro d’Italia 2017 è stato il momento migliore per lui, insieme al Tour 2018. Con tanti corridori abbiamo visto che quando uno sprinter vince così tanto è anche perché ha intorno una squadra di livello.
Sicuramente lui ha raggiunto la maturità sportiva molto precocemente. Alla sua prima Milano-Sanremo, se non fosse caduto toccando quello davanti secondo me avrebbe vinto. Poi ci sono un insieme di cose: se la squadra in un Grand Tour è al 100% per te, se da giovane riesci a essere più tranquillo… ma i suoi primi due o tre anni in Quick-Step sono stati i migliori per lui, anche se continua a vincere ancora.
Una domanda un po’ antipatica. Ogni tanto, nello sport, quando uno passa professionista con un cognome che gira già nell’ambiente, c’è sempre qualcuno che storce il naso. Hai percepito questa cosa? Se sì, ti ha dato più fastidio o più motivazione nel dimostrare, come poi hai fatto, che hai avuto la tua carriera non per il cognome ma per le gambe?
Un mix delle due cose. Non è mai stata una cosa che mi ha dato molto fastidio. Nel ciclismo ognuno ha la sua bicicletta, arrivi dove sei per merito tuo. Io non reputo uno svantaggio essere figlio di qualcuno nel mondo del ciclismo, anzi ringrazierò sempre mio padre soprattutto per gli anni prima del professionismo. Si può dire che io sia cresciuto nell’università del ciclismo fin da piccolo. Quando avevo 2 o 3 anni guardavo le corse con lui e le commentavamo. Questo mi ha dato tantissimo a livello di crescita e a livello tattico. Chi vive il ciclismo e chi sa di ciclismo non ha bisogno di capire o di spiegare. È solo questione di invidia. Chi sa il ciclismo e come funziona sa che se non pedali non vai.
Poi certo, se vogliamo essere onesti nel passaggio all’Astana è stato fondamentale il fatto che mio padre fosse lì. Ma Vinokourov era da due o tre anni che diceva a mio padre “Come mai hai un figlio e non lo fai correre qui?”. Fosse stato per lui, mi avrebbe preso anche un paio di anni prima. Quindi non mi interessa neanche più di tanto. Alcuni amici mi hanno detto che sono stati scritti commenti negativi sulla mia carriera ma dico la verità: non li ho letti. Credo che lascino il tempo che trovano, so quello che ho fatto e non ho fatto. Non ho problemi, non cambierei neanche una virgola del mio percorso professionistico. Chi mi conosce sa che ragazzo sono, quello che ho fatto. Non ho bisogno di farmi il sangue amaro e non me lo farei nemmeno. Sono commenti che non mi toccano, mi interessa solo cosa pensano le persone che ho intorno.
Sono parole importanti.
Leggo spesso cose brutte sui social, anche su persone che non se lo meritano. Negli ultimi tempi ho letto tante cose brutte su Vergallito, non se lo meriterebbe nessuno. Dietro il corridore c’è sempre una persona, a volte leggere queste cose fa più male di una coltellata. Alcuni la possono prendere come me ma non tutti. E fa veramente male.
Parliamo del ciclismo in generale. Cosa pensi della situazione del ciclismo mondiale? Sembra che le forze economiche si stiano accentrando intorno ad alcuni progetti e altre facciano più fatica: pensi sia una situazione pericolosa?
Penso sia sotto gli occhi di tutti che ci sono due o tre corazzate che hanno una enorme possibilità economica in termini di staff, corridori e investimenti, forse il doppio o il triplo di altre World Tour. Questo può essere un limite perché si può arrivare a corazzate che dominano le corse a tappe e lo spettacolo ci va di mezzo. Va detto però che il ciclismo sta un po’ soffrendo come sponsor, quindi bene che ci siano ma sarebbe meglio che ne arrivino altri o siano un po’ più ripartiti. Ma questo non sta a noi ciclisti deciderlo, altrimenti di certo li ripartiremmo. Non la definirei una situazione pericolosa, potrebbe però andarci di mezzo lo spettacolo.
Per quanto riguarda invece il ciclismo italiano, vedi la situazione così grigia o è un solo un ciclo meno ricco di talenti rispetto ad altri momenti?
Secondo me è un discorso molto più semplice. A noi non mancano i talenti, il ciclismo ha un settore giovanile molto ampio. In questo momento ci mancano le squadre World Tour con una loro Continental. Se un team ha una sua Continental è più normale che peschi corridori giovani dal suo settore giovanile, rispetto ad altri Paesi. Quindi un italiano oggi ha bisogno di risultati di maggiore livello per essere scelto da un team straniero e andare nel World Tour. L’unica eccezione è forse la GreenProject-Bardiani-Faizané, che secondo me fa un lavoro stratosferico. Tutti i giovani italiani che vanno lì possono già correre con loro perché hanno una squadra Pro Tour a tutti gli effetti. Devo fare i complimenti a tutti loro.
Che messaggio vuoi lanciare ai giovani?
Voglio dire che la base del risultato ciclistico è il sacrificio. Nel ciclismo ti costruisci a 14, 15 o 16 anni, quando cominci a crescere. Oggi il passaggio è precoce, se a 16 o 17 anni non sei in contatto con una Continental è difficilissimo passare professionista. Purtroppo bisogna fare dei sacrifici e a 15 o 16 anni non è facile farli. Quando vedi i tuoi coetanei che escono la sera, tu devi stare a casa. Io non ho rimpianti, dico che c’è sempre tempo per divertirsi, anche nel post carriera, ma da giovani bisogna sacrificarsi. Per me non è stato un vero sacrificio, lo volevo con tutto me stesso. Nessuno mi ha mai imposto niente e l’ho sempre fatto. Purtroppo non si può tornare indietro: sento tantissime persone che magari hanno smesso a 15 o 16 anni, poi hanno ripreso magari a 25 o 26 anni e hanno detto “Cavolo, se avessi saputo che bisognava solo tener duro”. Veramente, il concetto è di non aver rimpianti. C’è sempre tempo di fare cose normali ma se vuoi fare il professionista devi fare sacrifici dai 15 ai 20 anni. Uno vede sempre la punta dell’iceberg ma mi ricordo quando tornavo da scuola, prendevo la bici alle 14 e tornavo a casa la sera. O quando la domenica mi svegliavo alle 6 di mattina. Si potrebbe scrivere un libro su queste cose. Ma se hai la passione, devi dare tutto e basta.
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